Siti, libri e guide sull’Iran sono tutti concordi nell’affermare che una delle cose che colpisce maggiormente il viaggiatore è l’accoglienza della gente.
Dopo poco meno di un mese passato nell’antica Persia non posso che affermare che non c’è nulla di più vero!
Mi vengono in mente tre episodi come rappresentativi di questa affermazione:
1) Pic-nic alla Moschea
Non ricordo con precisione la città ma ricordo benissimo il caldo che scottava le chiappe al Demonio e che, essendo l’ora di pranzo, picchiava con ancora maggior forza. Stavamo davanti ad una Moschea in attesa che aprisse e io mi ero allontanato di qualche metro in cerca di una delle innumerevoli fontanelle refrigerate che si trovano per strada. Una volta tornato trovo la mia compagna seduta in terra sui dei cartoni in compagnia di una famiglia afgana (vabbè non erano iraniani ma passatemela lo stesso!) che le avevano offerto di condividere il loro povero pranzo. La famiglia era composta di due giovani afgane, due madri e un padre. Un altro fratello era in Germania e una delle sorelle insistette per chiamarlo per farci parlare con lui. Peccato che l’emigrato parlasse solo il tedesco o il persiano!
2) Dolce parkour
Dopo un assidua ricerca eravamo riusciti ad identificare una palestra dove veniva pratica la tradizionale disciplina del Pahlevani peccato che il giorno in cui ci eravamo andati per assistervi fosse chiusa. Tornando a casa ci imbattiamo in una grossa scuola fuori la quale un poster gigante raffigurava dei ragazzi combattere. Decidiamo di dare una occhiata all’interno ma veniamo subito bloccati da un attempato sorvegliante al quale, mimando alcune mosse di combattimento, facciamo capire la nostra intenzione di assistere agli allenamenti. Il guardiano sembra capire e ci accompagna all’interno del locale dove ripetiamo la stessa scenetta con la ragazza della reception che ci lascia entrare nella palestra vera e propria. Nella palestra veniva praticato tutt’altro che lo sport tradizionale iraniano ma ci si allenava nel parkour usando grossi materassoni come ostacoli da saltare. Assistiamo un po’ agli allenamenti e dopo un’oretta usciamo. Salutiamo la segretaria e una volta arrivati quasi in strada sentiamo una voce chiamarci: era lei che ci inseguiva con un contenitore trasparente contenente una specie di gelatina colorata che la ragazza, a gesti, ci fa capire essere un omaggio per noi. In albergo, la mattina seguente a colazione, decidiamo di dividerla con altri turisti italiani concordi tutti tanto sulla sua squisitezza quanto sulla sua misteriosa composizione.
3) Il caravanserraglio paramedico
A 60km fuori Yazd si trova Zein-o-Din, un antico caravanserragio ora divenuto un piccolo albergo tradizionale. Ci si arriva in taxi e poiché è sulla strada per Shiraz è più vantaggioso prendere il bus al volo che transita sulla vicina autostrada anziché tornare a Yazd per prenderlo nella stazione dei bus. O almeno così dicevano i vari blog dei viaggiatori e così ci era stato confermato da alcuni autoctoni di Yazd. Peccato che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mostruoso caldo del deserto, dove avremmo dovuto attendere per prendere il bus al volo, e l’orario di passaggio del bus che era tutt’altro che chiaro.
Ci ritroviamo, quindi, la mattina dopo l’aver dormito nel caravanserraglio sul margine dell’autostrada, in mezzo al deserto e a 1km dall’albergo. Noi, la sabbia, il sole e qualche rara automobile. Passano le ore e spuntano da una – non troppo vicina – costruzione due giovanottoni che si identificano come paramedici del soccorso stradale e che decidono di farci compagnia. Assieme a loro fermiamo vari bus – tutti sbagliati – finché, vicini a rinunciare alla missione, arriva il nostro atteso trasporto.
Grandi abbracci, ringraziamenti e ce ne andiamo, sdraiati sul fondo del bus stracolmo, verso la successiva tappa della nostra avventura.